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Lo scopero degli invisibili

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Il testo di Abdoulaye Thiam  è una “satura” alla latina di tutte le vicende che possono accadere a dei migranti, specialmente se sono neri.
Si va dalla traversata del deserto  con il consueto incontro di  bande libiche che chiedono risarcimento alle famiglie d’origine, il solito viaggio nella barca stracolma, l’inevitabile naufragio.

Anche le esperienze fatte nel paese d’arrivo, in questo caso l’Italia,  sono del tutto simili a quanto è già stato scritto. La precarietà dell’alloggio, del vitto, lavori avventizi, l’entrare nella rete della mafia, ecc,.
E poi i soliti  amori, guarda caso con la figlia di un imprenditore, ma poi anche con altre donne più o meno sempre disponibili.
Più originale  è invece tutta la prima parte quando si narra delle esperienze dei cosiddetti “talibè”, sia perché si racconta di vero asservimento di ragazzi con il pretesto di educarli, sia perché riporta un po’ la consuetudine del mondo, forse, subsahariano di organizzare l’educazione dei fanciulli.

La modalità mi fa venire in mente quanto accadeva nel medioevo in Europa quando le famiglie bene spesso affidavano i loro figli ai chierici vaganti   per un inizio di istruzione e questi li utilizzavano perché chiedessero l’elemosina e raccogliere danaro per pagarsi le lezioni in Università.

L’altro fatto di merito di questa narrazione è dato dalla vicenda che accade a ciascun dei tre protagonisti. Solo uno di essi si salva, alla fine gli altri due muoiono in circostanze diverse, uno per incidente stradale ed un altro ammazzato dalla mafia.

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