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pecore nere

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Otto racconti, due per ciascuna delle autrici di pelle nera, anche se di origini diverse: due indiane, una egiziana e l’ultima, la più giovane figlia di genitori somali, ma italiana.
La tematica sembra suggerita dal colore della pelle di ciascuna: la negritudine. In effetti gli argomenti di cui si tratta nei racconti sono diversi anche se si focalizzano sul tema dell’identità.non problematizzata solo dal colore della pelle, ma anche da altre connotazioni: lo spazio, la cultura, la tradizione.
Se l’identità è lo sfondo intorno a cui ruotano le otto storie pubblicate in questo testo, le modalità di approccio di letterarizzazione, mi si passi questo neologismo, è diverso e diventa significativo e proprio per ciascuna di queste autrici..
Spendere due parole per ciascuna di esse è quindi un imperativo categorico se non si vuole far torto alla creatività e alla specificità di ciascuna. Ho già parlato del riscatto della materia, del fisico come struttura narrativa determinante degli scritti di Igiaba Scego, pubblicando l’analisi del suo romanzo Rhoda. Il racconto Salsicce, la cui composizione in ordine temporale precede il romanzo, condensa emblematicamente sia il riscatto della materia, sia il processo di cambiamento che si origina nel fisico piuttosto che nella mente. Il protagonista napoletano del racconto la strana notte di vito renica, leghista meridionale,( pubblicato sul n. 3 di el-ghibli) assorbito dalla propaganda leghista vede somaticamente trasfigurarsi il suo corpo e portarlo fino alle situazioni più degradanti perché possa comprendere l’assurdità della sua posizione e procedere a un cambiamento di ordine mentale.
Il racconto dismatria, da una parte mette a fuoco l’inconsistenza della identità che è un fatto di storia personale, dall’altra ancora una volta presenta la specificità del raccontare di Scego perché questa volta ancora nella rivalutazione della materia si arriva alla materializzazione del sentimento. Questo non è sentito, vissuto, comunicato, è invece convogliato in oggetti. Così se i personaggi del racconto hanno continuato a disdegnare di dotarsi di mobili per raccogliere o ordinare i loro vestiti, ma li mantengono nelle valigie perché devono essere sempre pronti a ripartire, dall’altra la protagonista madre, custode delle tradizioni e del richiamo allo spirito di appartenenze, è quella che fra le altre valigie ha anche nascosto in una valigia tutti i ricordi di Roma, nel caso di un possibile ritorno in Somalia, perché ormai si sente legata a questa città, così che ormai fa fatica a sentire il suo vero senso di appartenenza e identità.
Anche Ingy Mubiayi affronta, a volte con senso ironico, il problema dell’identità. Specialmente nel racconto Concorso le contraddizioni che si aprono quando ci si àncora ad identità fisse o ideologicamente vissute sono evidenti. Ma le storie raccontate da questa scrittrice di origine egiziana trovano il loro spunto generativo da situazioni occasionali, fortuiti e imprevedibili. Molto evidente questa incertezza nel racconto concorso la cui predisposizione della domanda è l’esca da cui origina una intricata vicenda di rapimento, di ritrovamento, di bambini, di rom. E’ lo specchio della vita, la sua rappresentazione ove le cose avvengono per motu proprio e se non si è indifferenti ci si trova coinvolti senza possibilità di scampo.
Anche quando si tenta di gestire la realtà a partire dalle proprie convinzioni ed ideologie, quando si vuole dominare il mondo perché si crede di modellarlo secondo i propri pregiudizi, i propri presupposti ideologici, è sufficiente che si abbia una intenzionalità aperta perché avvenga l’adeguamento ad esso e si lasciano andare tutte le difese ideologiche a cui ci si era ancorati.
Così travolta dalla disponibilità alle necessità altrui la sorella della protagonista, Magda, che da scanzonata e occidentalizzata ragazza è diventata una religiosissima ed osservantissima mussulmana e che vede nella stanza del bagno il possibile campo di invasione del diavolo “il bisbigliatore”, per cui ha imposto che quello spazio deve essere usato solo per pura necessità e in totale silenzio, alla fine si trova a discutere con la mamma delle qualità di una persona, che non dipendono dal fisico, seduta “sulla tazza con [in mano] le monde diplomatique in lingua originale”, avendo così riacquistato quella umanità e libertà che le era propria.
Anche il secondo racconto ha un moto iniziale puramente fortuito e diviene l’elemento attraverso cui nasce il ricordo della vita da irregolare fatta nei primi anni vissuti in Italia, gli aspetti comici che tale vita a volte proponeva. Ancora una volta è la burocrazia e le sue lungaggini a essere messa bonariamente sotto accusa.
“Ero composta da due metà che non si integravano”, “Sto cercando di comporre un puzzle senza averne i mezzi” Sono due frasi significative appartenenti ai due racconti di Gabriella Kuruvilla, una giovane scrittrice indiana che propone in questa antologia due racconti India e Ruben. Il tema dominante è quella della identità, una prima di desideri, vita, comportamenti, modi di essere, di pensare, di relazionarsi e l’altra data essenzialmente dal colore della pelle.
Sono due identità che non si integrano, l’una interna e l’altra esterna. L’una voluta, accettata, vissuta, l’altra rifiutata anche se ritualmente rivisitata nel tentativo di riconoscerla, ma riscoperta sempre più ostile, sempre più ingombrante.
La rivisitazione fa parte del debito dovuto ad una paternità ma colpevolizzato perché l’ha fornita di quella veste che la fa sentire strana, diversa, altra.
Non è possibile sapere se il personaggio dei due racconti-confessioni sia lo stesso proposto in situazioni temporali diversi e se sia la personificazione della scrittrice.
Certo è che le due narrazioni lasciano stupiti il primo, India, perché nel tentativo di riconsiderare la possibilità dell’accettazione della propria ascendenza geografica la protagonista stravolge il suo sguardo in giudizi o in presentazioni di situazioni pregiudizievoli per una comunità e per la cultura di un popolo. Saranno pur vere le circostanze, i non profumi di ambienti, i topi che camminano di notte, ma che bisogno c’è di presentarli per dichiarare la difficoltà di accettare la propria origine?
Anche il racconto Ruben, che ruota attorno all’arrivo di un figlio, si misura in fondo sull’ansia e possibile terrore del colore del nascituro. E che liberazione da parte della protagonista quando scopre che questi è biondo, ha gli occhi grigioverdi e ricerca la compagnia di bambine dello stesso colore! Si, Ruben e il nonno, di colore nero, non possono che formare una fotografia in bianco e nero, da incorniciare, ma non da far vivere.
Infine il testo pecore nere consegna due testi di Laila Wadia, scrittrice di origine indiana, che ha già pubblicato la raccolta il burattinaio.
Anche in questi testi, come in quelli dell’antologia la bonaria comicità è il tessuto connettivo di fatti e situazioni, nel primo il contrasto che genera ilarità si ha fra un padre, indiano che è profondamente legato alle sue abitudini, ai suoi schemi, alla sua tradizione e un giovane per di più figlio di leghisti che forse difficilmente riuscirebbe ad accettare usi e costumi di altre culture.
L’incontro fra i due in una cena crea ansie, timori nella giovane ragazza indiana per le reazioni del suo “ragazzo” e viceversa. Tutto il racconto gioca sull’incerto equilibro che si stabilisce momento per momento.
In Karnevale emerge un’altra particolarità inaspettata della scrittrice di origine indiana: l’uso di un linguaggio adolescenziale, proprio di chi è abituato ad usare il cellulare per comunicare tutti i momenti. La lingua usata è scattante, nervosa, a volte monosillabica.
Il racconto per questi pregi risulta efficace, veloce e ritmicamente coerente con i sensi del racconto, gli stessi sentimenti sono proposti con la stessa passionalità, esclusività e durata che è propria di ragazzi dei nostri giorni.
Qualche considerazione a parte va fatta per il nome dato a questa antologia pecore ner. Intanto il titolo ripropone un modo di dire proprio della lingua italiana che sta ad indicare “un trasgressivo” “un diverso” rispetto al resto della famiglia, della comunità. Ma proprio per questo le pecore nere sono da tenere ai margini. Possono riscontrare curiosità, ma è meglio che stiano al loro posto perché diversamente ne avverrebbe un inquinamento che porterebbe a non poter più utilizzare la lana bianca delle altre pecore.
E’ già in partenza una marginalizzazione culturale? Se, come ipotizzo, al fondo qualcosa del genere c’è in questa operazione editoriale, perché le autrici hanno accettato di apparire in una tale antologia?
E se non lo è, allora si tratta solo di una trovata per rendere più curiosamente invitante alla lettura. Ma allora il “peccato” è ancora più grave perché si invita il pubblico di lettori alla visione dei testi a partire dal fatto che le autrici sono “nere”, precludendo di fatto ogni possibile riscatto sul piano letterario e confinandole sul piano folcloristico.

 

06-12-2005

 

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