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Algoritmi indiani

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Laila Wadia
Algoritmi indiani
Vita Activa Edizioni di ACID, 2017

raffaele taddeo

Questa nuova fatica di Laila Wadia merita una particolare attenzione perché si snoda  in una  molteplicità di sensi che sono determinati dalla struttura formale, da alcune frasi indicative presenti all’interno del testo, dallo stesso titolo che è stato scelto.
incominciamo proprio da questo.   I significati che derivano da “algoritmi indiani” sono tanti come sono tanti i significati che si attribuiscono alla parola “algoritmo”. Può essere “ un procedimento che risolve un determinato problema attraverso un numero finito di passi elementari”  ma anche “un problema   calcolabile quando è risolvibile mediante un algoritmo”, inoltre e possiamo considerare per ultimo “una sequenza ordinata e finita di passi  elementari che conduce a un ben determinato risultato in un tempo finito”. Da questo punto di vista possiamo dire che un primo senso direbbe che “una sequenza di ragionamenti  indiani semplici porta ad una risoluzione del problema (e di ogni problema).
A pag. 20 si trova questa affermazione “Un futuro basato sulle ceneri del passato è destinato all’implosione”. Questo concetto sembra la linea del senso che la narratrice abbia voluto dare alla narrazione e cioè non è possibile distruggere il passato, ma non solo considerarlo e riconsiderarlo, ma porlo alla base di qualunque progetto o tensione verso il futuro.
Un senso leggermente diverso invece pare arrivare dalla  struttura  del testo narrativo, che consiste essenzialmente in   un insieme di storie che si raccontano nel treno. Il treno è una cornice. Da questo punto di vista il testo di Laila Wadia  si inscrive e va messo a confronto con tutti quei testi che si organizzano all’interno di una cornice.   Abbiamo ad esempio Il Decamerone, I racconti di Canterbury, Le mille e una notte. Recentemente anche, per stare fra gli immigrati che hanno scritto di letteratura in italiano, si può, pur con i dovuti limiti rispetto ai tre segnalati, citare Tahar Lamri con il suo  I sessanta nomi dell’amore.
La cornice ha la funzione di un raccoglitore ove ci possono stare tutti gli altri scritti che possono avere degli elementi comuni, ma possono anche non averli. Boccaccio ad esempio divide le sue 100 novelle in 10 giornate a ciascuna delle quali assegna uno specifico tema.
Ma il primo dato più significativo è che solitamente c’è un narratore che si trova  specialmente nella cornice che ha  una funzione didascalica, a volte anche didattica,  ma manca un  protagonista perchè  sono tanti i protagonisti quante sono le storie. In “Algoritmi indiani” oltre al narratore abbiamo un protagonista presente anche nella cornice e cioè nella costruzione della scatola in cui debbono collocarsi  i vari narratori. E’ Rani.  Ciò che distingue  il testo di Laila Wadia da quelli classici citati in precedenza è che mentre i vari  protagonisti che raccontano le storie si pongono l’obiettivo di descrivere la società nella varia  gamma sociale, nella scrittrice di origine indiana non è tanto la descrizione della realtà sociale ad emergere come stringa intenzionale più significativa, quanto piuttosto la necessità che le narrazioni servano a giustificare cambiamenti della protagonista. Intanto i racconti sono fatti da narratori appartenenti a classi sociali ritenute marginali in India. Non è un caso che la scelta della classe del treno per viaggiare sia la seconda e non la prima ove si sarebbero potute incontrare persone appartenenti a classi sociali più elevate o almeno più abbienti. Ma i racconti della classe sociale meno abbiente hanno la funzione di portare ad una coscientizzazione di Rani, al rifiuto della dimensione alienante di un lavoro che imiti pappagallescamente la vita occidentale e americana, in particolare, disprezzando quella più tipica indiana, fatta di superstizione e di arretratezza culturale.  Algoritmi indiani hanno la funzione di riavvicinare Rani alla dimensione culturale del passato. Infatti si licenzierà dalla ditta da cui stava assumendo modi ed atteggiamenti di vita contrastanti con quelli indiani, per vivere con maggiore consapevolezza valori di vita del paese ove era nata.
In questo quadro, però, è da considerare attentamente   quello che accade a Nari (anagramma di Rani), indiano ma responsabile della struttura economica di una multinazionale americana, quella in cui è impiegata anche  Rani. Egli gestisce i dipendenti   con   piglio e  severità per emulare fino all’impossibile i modi  di fare e pensare degli americani. Ma la struttura periferica deve essere sacrificata per dissesti economici della ditta d’appartenenza e Nari alla fine perde lavoro. Egli chiederà al padre, che l’aveva costretto a seguire un’attività tesa al raggiungimento di una dimensione economica benestante, di poter  dedicarsi alla letteratura, alla poesia.
La vicenda di Nari però si pone come dimensione dialettica proprio rispetto alla tradizione del passato e alla tradizione culturale dell’India. Nari rivendica la propria autenticità e la propria libertà di scelta di vita, ma questo, e le narrazioni presenti nel testo lo  testimoniano,  cozza  contro quello che è la più forte struttura culturale della nazione asiatica, cioè la conservazione e l’obbedienza che neppure la legge è riuscita a scalfire. La dimensione della ricerca filosofica più pregnante dell’Occidente, a cominciare dall’Europa, è quella della tensione verso la libertà del singolo, che mentre nella rivoluzione francese ha ancora il sapore di un valore collettivo (liberté,  fraternité, equalité), successivamente, specialmente ad opera degli esistenzialisti sarà un valore della singola persona.  Nari, che assume questo carattere proprio della cultura occidentale, è portatore della necessità di un meticciato culturale che può condurre a sintesi sempre più elevate. Ma è necessario un meticciamento, sembra essere il senso ultimo del testo di Laila Wadia, e non solo una attenzione al passato, perché la staticità culturale non rielaborata dialetticamente non produce nulla di positivo anzi rischia di essere regressiva.

dicembre 2017 

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