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Inclini all'amore

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Il romanzo di Tijana  M. Djerkovic è molto ricco, intenso. Una sorta di saga familiare più ridotta perché prende in esame solo tre generazioni nonno, padre, figlia. La protagonista, Arianna, si sente investita dalla necessità di raccontare la storia della sua famiglia per riportare un po’ di verità, per riscattare la memoria del padre e risentirsi figlia in pienezza.
La struttura narrativa si sviluppa su più piani: Un primo, che chiamerei epico perché la trattazione delle gesta del nonno di Arianna, Milovan, hanno sempre il sapore della grandezza, dell’eroicità, dalla sua partenza verso l’Austria, poi verso l’America, il ritorno e poi i matrimonio con Milena.
La storia di Vladimir, il secondogenito di Milovan, acquista invece un carattere più realistico, più umano, si potrebbe dire, meno grandioso e pomposo; Vladimir non è un vincente anche se le sue qualità umane sono elevate. E’ stato un ragazzo partigiano che ha perso un braccio nella lotta contro i nazisti ed è devastato dalle ferite subite. E’ un poeta che sa fare innamorare di sé la bellissima vera che sopporta povertà e sofferenze per il suo amore. Gli darà due figli. Una dei quali è Arianna, la voce narrante.
Questa storia viene intersecata da una sorta di lettera diario di autobiografia proposta dal padre ad Arianna . E’ una struttura ad infilzamento che rende il racconto più emotivo e  partecipato.
L’ultima parte del romanzo riguarda invece la reazione di Arianna per la malattia finale e la morte del padre Vladimir.
Le tematiche sono molteplici, di varia natura e per alcuni versi contrastanti.  Il primo tema e più immediato riguarda il sistema dittatoriale di Tito e la politica separazionista da Mosca che richiedeva sacrifici di innocenti. “C’era stato un periodo in cui credevo che ogni rivoluzione dovesse sacrificare vittime innocenti. Adesso ero una di loro”. Il romanzo da un certo punto in avanti riguarda proprio il tradimento di una rivoluzione, della lotta dei partigiani che avevano perso la vita o avevano sacrificato la loro giovinezza per una patria da volti più giusti.
Un secondo tema riguarda il senso di appartenenza, appartenenza alla famiglia, alla stirpe, appartenenza alla comunità, al territorio. E’ significativo questo sentimento di ultima discendente di una lunga storia di persone. “E Arianna? Era diventata ostajnica, l’ultima rimasta, la donna sulla quale era andato a spegneresti l’albero genealogico di suo padre Vladimir, figlio di Milovan, figlio di Vuk, figlio di Lakić, figlio di Veliša, figlia di Stanko, figlio di Radosav e indietro ancora, fino a Vuk dal quale avevano ricevuto il cognome, Vukovic”. Sembra di leggere una pagina biblica, o sentire i canti di un griot, ove l’importanza del singolo viene celebrata attraverso il valore del casato, della discendenza. L’identità di una persona sembra dipendere da questa appartenenza alla dinastia, a tal punto che per perpetuarla si desidererebbe anche perdere la propria identità di genere: “Fosse stata coraggiosa, avrebbe rinunciato alla propria femminilità, come nei secoli passati avevano fatto alcune donne in Montenegro…, Avrebbe preso  il nome di un uomo e con la pistola legata alla cintola si sarebbe accesa una sigaretta, mettendosi a gambe larghe da uomo, accanto al focolare domestico, lei, donna diventata uomo tra gli uomini”. Il fatto di essere l’ultima di una discendenza le porta senso di colpa, la fa soffrire: “Ma Arianna era una donna di questi tempi, di altri luoghi e di altre temerarietà. Era lì, respirava, soffriva, si dibatteva nell’oscurità della casa con tutti i ricordi, con gli odori, con il male supremo, con il senso di fallimento [il grassetto è mio] e quel fallimento era lei, la donna con la quale si esauriva la storia di tutta una stirpe al maschile”.
Un terzo tema, importante, è quello del ritorno. La storia di Milovan è caratterizzata dalla sua volontà di ritorno, pur avendo dovuto emigrare in Austria, Francia e in America, fino all’Alaska. Il fratello Luka era ritornato in precedenza: “Dove hanno mangiato mio nonno e mio padre, posso mangiare anch’io. Un pezzo di pane e un po’ di formaggio non mancheranno mai”, dice ad un certo momento. Milovan che per qualche tempo aveva continuato il suo peregrinare “voleva riprendere il proprio nome, che da troppo tempo sentiva storpiato o taciuto”. E’ evidente che c’è una associazione fra identità e territorio d’appartenenza. La sua identità era posta a rischio se non fosse ritornato, perché “la terra migliore era la terra natia”. “E’ l’unico luogo dove ti riconoscono anche gli alberi, dove il sentiero accoglie anche i tuoi passi, dove l’aria ha profumato delle erbe che guariscono; è l’unico luogo che pianga la tua assenza alla conta dei vivi, degli assenti e dei morti. Solo lì sei figlio di tuo padre, e l’erede della tua tradizione. Altrove sei uno dei tanti figli della sopravvivenza, che è una madre spietata”. Tutti questi passi citati, anche piuttosto lunghi, diversamente dalla mia abitudine, stanno proprio a dimostrare che il senso ultimo del romanzo  è una celebrazione del  rapporto inscindibile fra identità e territorio. Non è un caso che la narrazione finisca così: “Questo libro è il suo ritorno a casa. Definitivo”. Chi non ritorna acquista un valore negativo.
Un senso di angoscia e tristezza ho provato alla lettura del libro, scritto molto bene. Da molto tempo mi pongo il problema del rapporto fra Letteratura e storia socio politica. Quanto la Letteratura sia solo l’espressione di  un sentire universale totalmente libera nella sua creazione da ogni altro condizionamento, quanto sostenga a volte ideologie, quanto debba porsi il problema di una emancipazione dell’uomo. Da quando ho incominciato ad interessarmi della migrazione e della Letteratura della migrazione ho continuato a consolidarmi su una idea: lo stretto legame fra identità e territorio, celebrato in non poche opere letterarie ( basti solo pensare agli scritti di Verga) è un elemento ideologico pericolosissimo foriero di conflitti fra popoli, fra etnie. D’altra parte la nascita di partiti, che sul legame fra identità e territorio ne hanno fatto il cavallo di battaglia della loro azione politica e della rinascita di forme razzistiche, mi ha sempre più confermato della pericolosità della esaltazione della relazione identità-territorio.  Da questo punto di vista mi sono posto il problema se anche questo romanzo non sia segnato ideologicamente, se sotto mentite spoglie, pur se raffinate,  non voglia cantare ancora conflitti e lotte avallando come valore  il sentimento del legame fra identità  e territorio.
Quando ho scritto La ferita di Odisseo ho ricercato un po’ da tutte le parti e mi sembrava di aver colto che la migrazione spezza il legame fra identità e territorio, mi sembrava che da sempre la migrazione sia stata un elemento della emancipazione dell’uomo, che attraverso il viaggio, l’andare, il cercare lavoro, la conoscenza di altre persone, di altre culture, abbia potuto e saputo liberarsi dai suoi ceppi, dalle catene che lo rendono egoista, incapace di comprendere, capire gli altri, accettarne le sue contraddizioni e saper vedere le proprie contraddizioni, lavorando perché l’umanità possa avviarsi verso una vera “fratellanza” come diceva Leopardi e smetterla di guerreggiare al suo interno per un pezzettino di terra o per l’appartenenza ad una cultura piuttosto che ad un’altra. Se è pur vero che le guerra che sorgono fra gli uomini hanno come elemento determinante il fatto economico, d’altra parte l’ammanto ideologico è sempre stato dato dalle differenze culturali, dalle differenze di religione, dalla salvaguardia delle identità di popolo, da altre ideologia che nulla hanno a che fare con l’essere uomo.  
 settembre 2013

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