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lasposa degli dei

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Nell’intervento al seminario della rivista Sagarana, tenutosi a Luglio del 2005, il prof. Carmine Chiellino affermava che “..chi scrive critica letteraria su di voi non riuscirà mai a farla”. Alludeva a critici italiani e a scrittori stranieri. Per poter essere lettore autentico delle opere degli stranieri che scrivono in italiano bisogna essere “interlocutori”, affermava, cioè possedere oltre la loro lingua originale anche la conoscenza della loro cultura perché diversamente il prodotto elaborato non può essere compreso. La lettura del testo di Kossi Komla Ebri, a volte mi ha portato a dar credito al prof. Chiellino nonostante sia molto più convinto della posizione espressa in una intervista di Kundera apparsa su Repubblica qualche mese fa in cui affermava che i più grandi interpreti di grandi scrittori non sono stati i critici della stessa nazionalità dello scrittore ma di altre nazionalità e molto spesso non conoscevano neppure la lingua in cui il capolavoro era stato scritto, ma solo una traduzione.
La sposa degli dèi con sottotitolo nell’Africa degli antichi riti porta a disorientamento o forse meglio come afferma Slowsky a “straniamento”.
Intanto la maggior parte della storia è narrata al tempo passato, passato remoto o imperfetto, e ciò induce ad assimilare il testo ad una sorta di racconto favolistico. E’ come se si iniziasse “c’era una volta…”, con il patto chiaro fra narratore e lettore che quello che si sta raccontando appartiene alla immaginazione, a volte alla narrazione popolare fatta di credenze e superstizioni, a volte anche, con un certo substrato storico ( come direbbe Propp), ma comunque trasformate in mito, a leggende la cui veridicità sta solo nella lontana credenza e superstizione popolare. Ma poi questo patto che, in verità è rotto fin dall’inizio ma con tanta cautela da non emergere, viene interrotto di tanto in tanto con l’introduzione del tempo presente o con l’indicazione di modalità di vita presente, moto – auto, che quasi traumaticamente ci vuole affermare che quello che si racconta avviene al giorno d’oggi nella nostra globale civiltà tecnologica.
Così avviene dopo che è stato raccontato l’episodio chiamato “il prodigio” in cui, miracolosamente per infusi di decotti ricavati da una corteccia d’albero poi scomparso, una lingua quasi del tutto troncata si riattacca. A fine capitolo si legge “Il giocatore è tuttora vivo, gode di buona salute, ha smesso di giocare, ma…chiacchiera molto”.
E così il lettore va a rivedere l’introduzione e la quarta di copertina, che la riporta in parte, e legge “oggi, girando per le strade sassose e irregolari di Dugà, capita di incontrare un uomo di bassa statura, gambe arcuate, barba grigio incolta, viso scavato e occhi spenti”.
Non è più un racconto favolistico, non è più una leggenda, non è più una scrittura di credenze popolari sapientemente raccolte e riportate, ma è la presentazione di comunità che fa permanere una cultura che resiste a tutte le invasioni globalizzanti e che si arrocca ad alcuni valori fondamentali e determinanti per sopravvivere e non essere spazzata via d’un sol tratto per l’arrivo di un’automobile oggi, della televisione o del cellulare poi.
In fondo anche nella cultura occidentale, verrebbe da pensare, di tanto in tanto vengono stampati libri e testi o articoli di giornali ove il miracoloso, l’inconoscibile, viene riproposto sotto la forma culturale che è propria e tipica della cultura più nordica, almeno più italiana: il miracolistico.
E’ chiaro che i campi e le situazioni sono diverse, pur tuttavia quello che è simile è che possano avvenire fatti non spiegabili razionalmente.
Poi però ci si domanda se il testo del medico Kossi Komla Ebri sia solo questo, oppure è possibile affermare che questa è soltanto una prima lettura, forse la più superficiale. Una analisi attenta fa percepire che il narratore pone una estrema attenzione a tutto quanto è connesso con la parola.
E’ tematica centrale, direi “un chiodo fisso”, che oltretutto a ben pensarci percorre tutta la narrativa prodotta dallo scrittore togolese. Chi non ricorda i riti mattutini orali che accompagnano i personaggi descritti nella narrazione quando attraverserò il fiume?
Così le situazioni peggiori accadono a coloro che della parola ne hanno fatto un uso improprio se non malevole.
L’espressione e manifestazione della parole diventa foriera di un coinvolgimento corporeo in positivo o in negativo. La parola è l’espressione della autenticità della persona. Quasi tutti gli episodi raccontati nel libro, la stessa vicenda di Amavi, (la sposa degli dei) hanno come elemento centrale e caratteristico la relazione che esiste fra la veridicità, e cioè il coerente uso della parola in coerenza con i fatti, e l’equilibrio fisico-corporale.
Perché è questo il secondo elemento caratteristico dell’uso della parola. L’uso della parola positiva, non portatrice di menzogna, di contraddizioni interiori, è veicolo di equilibrio psicofisico. Quando il rapporto fra parola e verità si rompe, ne risente il corpo, ma anche la mente. Il corpo si ammala, la mente si offusca.
Quando la parola si allontana dalla verità dei fatti, la menzogna, perfino la stessa omissione della verità, coinvolge in una disfunzione corporale, che può condurre a conseguenze estreme, perfino alla morte.
Se la parola è tema centrale di questo romanzo non si esulano anche altre istanze. Altri valori sono richiamati lamentandone la progressiva scomparsa, ma generatrice di alterazioni fisiche che sembrano quasi nemesi di entità che si sentono tradite: la generosità, la disponibilità, la fiducia nell’operato degli altri.
La mancanza del loro rispetto causa discrasie, disfunzioni nell’equilibrio psichico che poi si riversano su tutta la persona.
Viene in mente la terzina dantesca che recita “temer si dee di sole quelle cose c’hanno potere di fare altrui male, dall’altre no che non sono paurose”. E’ una saggezza antica e globale la cui ignoranza inflaziona la civiltà occidentale, e fino a quando non anche le altre, di psicologi, di farmaci, di spesa sanitaria privata e pubblica, spreco della civiltà del benessere.
L’oblio dei valori sopra riportati, la diffusione del sistema della menzogna, è generatore di schizofrenia fra vita e verità.
Gli spiriti, i “tron”, sono da questo punto di vista la personificazione dei valori sopramenzionati e proprio per questo possono portare sanità anche fisica. Non è un caso che in questo testo lo scavo psicologico dei personaggi è limitato, perché non è di individui che si vuole parlare, ma di queste idealità di vita rappresentati da “vodù”.
Letto in questa chiave il testo del medico togolese acquista il sapore di una forte critica alla ipocrisia, alla inflazione della falsità gratuita e ingannevole, diversa dal machiavellico “non tener la fede”, pratica dei nostri politici e non, forte critica alla caduta della rettitudine e rispetto nei confronti degli altri, al lasciarsi andare alle proprie meschinità e gelosie, senza la capacità di saper vedere la verità e realtà con occhi sereni e sinceri.
I riti antichi dell’Africa sono il pretesto per riproporre all’attenzione la centralità di un uomo che necessariamente per una sua sanità anche fisica deve riassumere comportamenti autentici e corretti.

07-11-2005

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